Ho iniziato a fare un corso di cerimonia del tè. Lo faccio a Firenze, al Lailac, l’associazione Culturale Giapponese che cura una serie di manifestazioni di cui ho parlato qui in varie occasioni (Natsu Matsuri, i tamburi Taiko…). È da qualche anno che faccio la corte al corso di cerimonia del té, e quest’anno, 2013, le congiunzioni astrali hanno fatto sì che io riuscissi finalmente a iscrivermi. Ho assistito alla prima lezione mercoledì scorso. È un’esperienza interessante, che mi piacerà raccontare qui. Questo è il primo post che dedico all’argomento, pertanto l’ho intitolato con uno dei gesti rituali della cerimonia: il saluto a Rykiu, Sen Rykiu, colui che canonizzò la cerimonia del tè giapponese riportando lo spirito del tè ad un’essenzialità e una semplicità che si era persa nonostante la filosofia zen imperante nel Giappone del XVI secolo. A lui, dunque, si deve il canone del Chado, la via del tè, che viene praticata tuttora in Giappone.
Il saluto a Rykiu si compie durante la cerimonia del tè, ed è l’omaggio che maestro del tè e invitati seduti sul tatami rivolgono a colui che per la prima e unica volta fissò le azioni, i movimenti, gli oggetti, tutto ciò che avviene durante il chanoyu. Senza il quale, probabilmente non esisterebbe più nulla di tutto ciò.
La cerimonia del tè, chanoyu, si svolge nella stanza del tè, una camera spoglia col pavimento coperto dal tatami. In fondo alla stanza bolle l’acqua e accanto, su un basso tavolino sta il tokonoma, un fiore o un’opera d’arte, realizzato o posizionato lì per deliziare la vista e lo spirito dell’ospite d’onore della cerimonia.
Ogni cerimonia del tè che si rispetti ha un ospite d’onore. A lui vanno le maggiori attenzioni, lui entra per primo, beve per primo, a lui spetta l’omaggio da parte degli altri invitati, che hanno l’onore di poter bere il tè con lui, a lui spetta di decidere quando la cerimonia del tè può avere termine.
La prima lezione di corso è stata… curiosa: curiosa perché io ero curiosa e guardavo tutto con gli occhi aperti il doppio, con i sensi tutti tesi a cercare di carpire e capire quanto più possibile. Improvvisamente, infatti, sono stata sbalzata in un mondo totalmente nuovo, del quale poco conosco, eccetto quello che ho letto ne “Lo zen e la cerimonia del tè” di Kakuzo Okakura; un mondo fatto di cerimoniale, di cura e attenzione alle piccole, minuscole cose, attenzione che da fuori potrebbe sembrare maniacale ai gesti, gestualità che ha dell’artefatto e del sacro, forse: il tutto è un inno alla semplicità, ma quanto sono complicate agli occhi degli occidentali queste cose semplici!
Nella prima lezione abbiamo imparato ad essere ospiti, quindi a bere il tè. A bere il tè son buoni tutti, si potrebbe pensare, e invece no, perché anche per bere il tè ci sono regole da seguire, movimenti da compiere e pose da assumere.
Incredibile quante cose ci siano da imparare: a camminare innanzitutto, e a stare seduti. A stare seduti a lungo. Perché sul tatami si sta seduti, o meglio, inginocchiati per tutto il tempo della cerimonia. E noi occidentali abituati alle sedie e non a stare in ginocchio per ore, per quanti sforzi possiamo fare non resistiamo più di tanto: si comincia con un formicolio che diventa poi indolenzimento e infine dolore che distrae. E questo non deve accadere.
Da imparare ci sono anche alcune parole, i nomi giapponesi degli oggetti che vengono coinvolti nella cerimonia del tè, dal fukusa, che è il tovagliolo di seta non perfettamente quadrato che ogni maestro possiede, al chawan, che è la tazza in ceramica. La tazza ha sempre un decoro che ne identifica un “davanti” rispetto a un “dietro”: e la posizione del decoro è importante nel corso della cerimonia.
Quando l’ospite entra nella stanza del tè per prima cosa deve rendere omaggio al tokonoma, poi prendere posto. L’ospite d’onore entra per primo, a seguire, in ordine di importanza, gli altri ospiti, che si vanno a mettere accanto. L’ospite d’onore beve per primo, per lui è preparata la prima tazza di tè. Chi viene dopo di lui, e dopo di lui berrà il tè, ha l’obbligo di rendergli omaggio, ringraziando per la possibilità di poter prendere il tè con lui, e all’ospite che viene dopo, scusandosi se beve il tè prima. Poi rivolge al maestro del tè la sua approvazione per la bevanda appena ricevuta.
Viene preparata una tazza di tè per volta, e mentre il maestro prepara, agitando nella tazza il chasen, il frustino di bambù che mescola la polvere di matcha all’acqua, l’invitato di turno mangia uno zuccherino o un dolcino, per compensare l’amaro del matcha. L’invitato riceve poi il suo tè, gira la tazza in modo da non bere sul lato “nobile”, quindi restituisce la tazza al maestro, che la pulisce e la riutilizza per servire il tè al prossimo invitato.
Una cerimonia del tè, che si caratterizza per la calma e la lentezza dei suoi gesti, può durare anche ore. Ma quando l’ospite d’onore decide che ha bevuto abbastanza, allora il maestro ripone i suoi oggetti e conclude la cerimonia. Anche nell’uscire dalla stanza del tè si segue una regola: sempre per primo l’ospite d’onore, e a seguire gli altri invitati in ordine di importanza.
Non è facile ricordare tutti i gesti: sono tanti, minimi dettagli che contribuiscono a rendere speciale un evento del genere. Per riuscire al meglio bisogna calarsi nella parte (dando retta il meno possibile alle gambe doloranti), riuscire a pensare solo a quello che si sta facendo, ma nel più naturale dei modi: questo sarebbe lo spirito per partecipare ad una cerimonia del tè, che sempre più si connota come occasione per lasciare fuori dalla porta le preoccupazioni, gli affanni, le corse, la fretta che governa la nostra vita quotidiana, lasciandosi trasportare dalla calma, dall’attenzione ai singoli piccoli gesti che regolano la via del tè.